venerdì 23 marzo 2007

Lavoro a termine: sono un milione i precari "scaduti"


Il tasso di disoccupazione diminuisce. Il clima del mercato del lavoro pare tornare al bel tempo. Eppure qualcosa nei conti continua a non tornare. Soprattutto a chi il lavoro flessibile lo vive sulla propria pelle. Le cose sembrano essere più complicate di quanto non siano a prima vista. Sì, perché la vitalità mercato del lavoro, se si esclude l’effetto della regolarizzazione dei lavoratori immigrati, sembra ruotare soprattutto intorno ai contratti a termine. Nell’ultimo trimestre, dice l’Istat, i nuovi posti sono 333mila. Di questi 191mila sono contratti a tempo determinato. Contratti che finiscono per scadere. Contratti che non sempre offrono un percorso verso la stabilizzazione.
E una volta scaduto il contratto, il lavoro non c’è più. Solo per questo si smette di essere precari? No, certo che no. Anzi si diventa iper-precari. Precari all’ennesima potenza. Ma quanti sono gli italiani che oggi si ritrovano a piedi per colpa di una collaborazione che non è stata rinnovata? Quanti sono i giovani e i meno giovani che sono dovuti uscire dai cancelli delle imprese per non tornarci perché il contratto è scaduto? Secondo lo studio "Quanti sono i lavoratori precari" realizzato da due ricercatori italiani (Emiliano Mandrone dell’Isfol e Nicola Massarelli dell’Istat), il numero dei lavoratori precari non più occupati arriva quasi a un milione. Per la precisione 948mila uomini e donne (vedi tabella). Non uno di meno. Da soli potrebbero popolare una città. “I risultati di questa analisi – ci spiega Mandrone – sono elaborati esclusivamente da due fonti ufficiali: la Rilevazione Continua sulle Forze Lavoro dell’Istat e la nuova indagine PLUS realizzata dall’Isfol in collaborazione del Ministero del Lavoro.” Il contributo è importante. I due autori hanno cercato di arrivare soprattutto a dare un numero certo e attendibile relativo a quell’inafferrabile magma formato dai lavoratori precari.
In tutto, tra collaboratori, partite Iva, dipendenti a termine - occupati e non più occupati - si arriva a quasi quattro milioni. Una galassia che sembra farsi sempre più grande e dove i singoli satelliti non riescono mai a trovare un’orbita stabile intorno a un impiego. E tra questi quelli con l’orbita più incerta sono proprio gli iper-precari, i precari non occupati, una nuova categoria a cui gli autori dello studio ci invitano a prestare molta attenzione.
“Ci sembrava che le stime sul precariato che circolavano – ci ha detto Nicola Massarelli ricercatore Istat - avessero il grave difetto di considerare soltanto le persone occupate, seppure con contratti di natura temporanea. È invece insita in un modello di mercato del lavoro flessibile la possibilità che a periodi di occupazione se ne alternino altri di non occupazione. A nostro avviso, quindi, occorre conteggiare tra i precari sia le persone che lavorano con forme contrattuali a termine, sia quelle che non hanno più un lavoro proprio perché ne hanno perso uno precario e che al tempo stesso stanno cercando un nuovo lavoro. I precari non più occupati sono tanti e sono quelli che più necessitano di adeguati ammortizzatori sociali.”
La gran parte di loro sono persone che si sono trovate costrette ad accettare dei contratti a termine e che sono state invitate ad uscire dalla vita dell’impresa. In tutto 789mila. Tutte persone che per lo più i contratti a termine non li avevano di certo scelti. Persone che ai contratti a termine alle dipendenze erano approdati solo perché a loro non veniva proposto altro. Ma quali sono le ragioni di questa esplosione continua nelle imprese dei contratti a termine alle dipendenze? “Il lavoro temporaneo – spiega Massarelli - si presenta con molte facce, e ogni fattispecie contrattuale risponde ad esigenze diverse. Le forme di rapporto di lavoro alle dipendenze con una scadenza sono molte, dal lavoro interinale ai contratti a termine, dall’apprendistato ai contratti di inserimento lavorativo e via discorrendo. Complessivamente, tutte queste fattispecie interessano un numero di persone maggiore dei contratti di collaborazione. Il successo dei contratti a termine è solo in parte dovuto alla flessibilità che essi assicurano alle imprese. Un elemento che sicuramente ricopre un peso rilevante è costituito dal loro costo, che per le imprese è generalmente inferiore rispetto ai normali contratti a tempo indeterminato.”La difficile sostenibilità sociale di questo fenomeno si acuisce se si pensa che il fenomeno non riguarda solo i giovani. “La precarietà lavorativa – prosegue Massarelli - coinvolge prevalentemente i giovani nella fase di ingresso del mercato del lavoro. Le forme contrattuali flessibili stanno però prendendo sempre più piede anche tra le persone non più giovanissime. La non trascurabile incidenza del lavoro temporaneo tra le persone di 40-45 anni evidenzia la possibilità che questo finisca per costituire una vera e propria trappola della precarietà piuttosto che una via di accesso al lavoro con la elle maiuscola.”
Molti affermano che che quella del lavoro a termine sia una situazione temporanea e questo status porti verso contratti più stabili. Ma quante possibilità hanno davvero queste persone di entrare nel mercato del lavoro a tempo indeterminato? Quali sono le variabili che entrano in gioco nel determinare il destino di questi lavoratori? “Ovviamente i contratti a termine sono anche un’occasione per accedere al mercato del lavoro più stabile – dice Mandrone - tuttavia il tasso di conversione di occupazioni precarie verso lavori stabili è sempre più basso e il momento della trasformazione del contratto sempre più posticipato nel tempo. Inoltre non sono esposti tutti i lavoratori in maniera proporzionale: i lavoratori del Mezzogiorno, i giovani, le donne e gli over50 (che hanno perso l’occupazione) corrono rischi maggiori di avere occupazioni precarie e di avere esiti occupazionali meno favorevoli.”
Significativo, ma forse meno di quanto si pensasse, il gruppo di coloro che si sono visti scadere il contratto di collaborazione senza un rinnovo. Tra collaboratori occasionali e a progetto o co.co.co del pubblico ci sono infatti 120mila persone che sono già alla ricerca di un lavoro e sono pronte ad accettarlo immediatamente. Ancora minore, ma pure significativo, il numero di quelli con partita Iva: 38 mila i “senza impiego”. Gli occupati in questa categoria oggi sono invece pari a 365 mila.
Ma cosa si può fare per rendere meno difficile l’alternanza tra periodi di occupazione e periodi di non occupazione? Per Mandrone si deve partire soprattutto da un miglioramento dei servizi di intermediazione. “Servizi pubblici in primo luogo ma anche privati al fine di minimizzare i tempi di non occupazione. Investire in formazione durante tutta la vita lavorativa, per “essere sempre pronti “ per la domanda del mercato. Avere garanzie sulla continuità del reddito e la contribuzione previdenziale nei periodi di non occupazione. Inoltre è sempre più necessario attivare procedure di selezione formali per garantire a chi investe nel proprio capitale umano migliori chance occupazionali.”
(fonte: La Repubblica)

5 commenti:

angela padrone ha detto...

Che bello se i precari non ci fossero, se si potesse trovare lavoro appena lo si cerca, anzi, anche quando non si sa cosa si cerca. Squilla il telefonino e una bella voce dall'altra parte ci dice: "Vorremmo offrirle questo meraviglioso lavoro, non ci aveva mai pensato che potesse esistere,eh? Ma noi sappiamo che lei è proprio la persona giusta. Non sa fare niente? Fantastico, non ha assolutamente importanza!" Purtroppo non è quasi mai successo, né ai tempi degli antichi greci, né negli anni Cinquanta, e neanche nei meravigliosi anni Ottanta, quando in realtà la disoccupazione era all'11% e non si trovava neanche uno straccio di lavoro a termine. Ma lo sapete che la flessibilità esiste in tutta Europa, in tutto il mondo? Perché non ci si lamenta del lavoro in nero? Fra qualche giorno vi racconterò qualche esempio straniero, di come si potrebbe gestire un po' meglio la precarietà. Chi vuole può leggermi, e contraddirmi su "cambiamondo". E troverà anche alcuni esempi di come si può trovare, (e strano a dirsi, anche rifiutare) un lavoro sicuro:
www.angelapadrone.blogspot.com

GiovaneLaureata ha detto...

Sarebbe bello che in Italia il lavoro flessibile funzionasse sul serio, il concetto non è errato di per sè; in America se un giovane laureato viene assunto in un'azienda è improbabile che ci resti tutta la vita e questo senza traumi alcuni, anzi, per lui aumenta la possibilità di arricchirsi e crescere professionalmente. Conosco il lavoro nero, essendo siciliana in particolar modo, ma purtroppo qui è già tanto se si arriva a uno stipendio a fine mese, figuriamoci essere messi in regola!!!

angela padrone ha detto...

L'Italia è per tanti versi un paese immobile, pieno di sabbie mobili e di caste. Purtroppo non è lamentandosi che si combina qualcosa. Bisogna spaccarsi la testa per abbattere i muri...su "cambiamondo" ho raccontato un paio di storie: un'americana a roma e alcuni ragazzi che saranno assunti in azienda dopo un master per assistant manager: ma hanno iniziato facendo la gavetta al bar. In quel corso, che dava un posto sicuro, c'erano altri studenti, che però hanno mollato. Perché?

Mr. Turbo ha detto...

Perche in Italia le cose non funzionano come dovrebbero.
I manager dovrebbero farlo quelle persone brave a fare i manager non quelle che sono brave a fare il caffè.
Ormai non credo più alla favola di cenerentola.

Siamo stati presi in giro più volte dalle generazioni precedenti.
C' hanno detto di studiare duro e l'abbiamo fatto,ma non è servoto a niente.
Adesso ci dicono di metterci a far i barman o i camerieri.
La nostra colpa è quella di aver studiato troppo invece di dedicarci ai lavoretti?!
Ma vogliamo scherzare ?!?

Mr. Turbo ha detto...

Perdonami il tono polemico,ma certe cose proprio non le digerisco..